Intervista a g olmo stuppia . articolo di Costanza Sartoris

Esercizio di veglia funebre durante il workshop TzanJuxstaposition, foto Matteo Roici
Esercizio di veglia funebre durante il workshop TzanJuxstaposition, foto Matteo Roici

Si è concluso il 1 ottobre il workshop TzanJuxstaposition curato da Josep-Maria Martin e organizzato dal gruppo ICONA in collaborazione con LOCALEDUE presso lo IUAV di Venezia. Il tema affrontato è stato quello del suicidio, che gli studenti hanno cercato di cogliere attraverso delle pratiche performative al fine di comprendere come l’istinto mortifero presente in ognuno di noi si possa sublimare a livello estetico, in un processo di riflessione capace di aprire il nostro sguardo alla rinascita. Il percorso è terminato, infine, nella performance Suicide a Venise svoltasi il 30 settembre presso il giardino della Ca’ Tron e il 1 ottobre presso la Tesa 99 dell’Arsenale nel contesto della mostra Montaigne a Venise di Yona Friedman.
Quello che più colpisce di questo workshop è come la pratica artistica sia diventata parte integrante del modello di insegnamento, offrendo un diverso punto di vista circa l’esperienza della conoscenza. Ne abbiamo parlato con g. olmo stuppia, uno dei membri del gruppo ICONA.
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[Costanza Sartoris] Parlare di morte, e nello specifico di suicidio, a Venezia sembra quasi una farsa: forse perché città emblema della decadenza, Venezia sembra sia sempre pervasa da una sorta di istinto mortifero che emerge in molte opere letterarie. Prima tra tutte è senza dubbio il romanzo di Thomas Mann, Morte a Venezia, che penso abbia molto a che vedere con il percorso che avete svolto per il workshop TzanJuxstaposition. Vi è infatti un punto nel romanzo in cui Mann dice: “L’educazione del popolo e della gioventù per mezzo dell’arte è un’impresa arrischiata che bisogna proibire. Infatti che educatore può mai essere colui che per istinto incorreggibile e naturale è attratto verso l’abisso?” Quello che avete fatto sembra cercare di contraddire questo passaggio: puoi parlarmene?

[g olmo stuppia] Pare impossibile, banale, controproducente, eppure si, l’abbiamo fatto: il suicidio a Venezia; una storia trita e ritrita. Se la rileggiamo con attenzione scopriamo però che essa possiede ancora la capacità di raccontarci qualcosa: certamente siamo attratti dall’abisso e l’artista si può definire come una “macchina dell’abisso”, ma anche una “macchina della seduzione”, ed è su questo binomio che si è giocata la partita educativa di TzanJuxstaposition.
Cercare e creare forme di traduzione per varcare nuovi paradigmi è un lavoro lento e difficile. Abbiamo cercato di avvicinare il Suicidio a questi paradigmi invitando Josep-Maria Martin come visiting professor. Il suo lavoro si situa infatti tra politica, scultura collettiva e progetti site specific, proponendo possibili orizzonti per guardare alle proprie fragilità e alle politiche che le persone generano insieme.
Thomas Mann è un immortale della letteratura che ha illuminato il cammino di questo workshop e della Storia; è una referenza obbligata. Sussistono pur anche altre bussole e queste sono rappresentate dalle intime relazioni dei giovani partecipanti con i loro progetti. Abbiamo dedicato ore e ore al vagliare una alla volta le idee e le suggestioni proposte dagli studenti, aprendo un dibattito veramente orizzontale riguardo agli aspetti positivi e agli aspetti negativi dei progetti individuali.
L’artista che educa, nell’epoca del neurocapitalismo ha una responsabilità enorme, che è quella di arginare la formazione di individui assenti rispetto ai loro stessi bisogni reali. Questo è “compito” oggi più che mai legato alle pratiche artistiche perché esse non contengono un insegnamento morale statico, poiché si muovono sull’asse sempre cangiante dell’alterità, rivelando quindi lo spirito del nostro tempo.

Simone Marraghini, Nightscapes, studente di arti visive IUAV, cortesia Simone Marraghini.
Simone Marraghini, Nightscapes, studente di arti visive IUAV, cortesia Simone Marraghini
Espai del Castel, Ceramic Juice, 2001, courtesy by the artists, curated by Marti Peran
Espai del Castel, Ceramic Juice, 2001, courtesy by the artists, curated by Marti Peran
Espai del Castel, Ceramic Juice, 2001, courtesy by the artists, curated by Marti Peran
Espai del Castel, Ceramic Juice, 2001, courtesy by the artists, curated by Marti Peran

 

Giorgia Antonioli, studentessa di Architettura IUAV con Josep-Maria Martin, Ca’ Tron, IUAV
Giorgia Antonioli, studentessa di Architettura IUAV con Josep-Maria Martin, Ca’ Tron, IUAV

[CS] L’attrazione verso l’abisso: questo è forse il vero tema affrontato attraverso i diversi esercizi e le numerose pratiche performative durante tutto il periodo del workshop. Trovo interessante il fatto che in bibliografia abbiate posto il testo di Alejandro Jodorowsky “On the suicide” che spiega sostanzialmente come l’azione del suicida cerchi di uccidere qualcosa che è al di fuori di sé, lo spirito, ma fallisce poiché uccide il corpo. Puoi spiegarmi come avete cercato di coniugare l’attrazione spirituale che ognuno di noi prova nei confronti della morte con la corporeità? Che legame intercorre tra questi due elementi?

[gos] Il corpo ha un volume ed il volume è occupazione di spazio volontario, ossia architettura. La nostra principale preoccupazione durante il workshop è stata far si che i ragazzi capissero che la qualità del loro tempo sia dipesa intrinsecamente da una scelta di approccio volitivo verso le nostre proposte. Il “parassita”, che cita Jodorowsky nel suo breve testo sui morti suicidi, riflette un approccio genealogico rispetto alla delicata scelta che compie chi si toglie la vita: il suicida tenta di liberarsi di questo essere che lo abita, che gli procura sofferenza, e invece sbaglia uccidendo anche l’involucro.
Durante TzanJuxstaposition abbiamo lavorato su una triplice azione: una prima intensa fase conoscitiva con suggestioni individuali, poi delle lectures esterne (Engramma; Enrico Bettiniello e LocaleDUE) sullo statuto dell’immagine prima “dormiente” e poi legata al suicidio; quindi si è attivato il corpo con esercizi proposti da JMM, da Melania Fusco, da me e in alcuni casi anche dai ragazzi.
È stato curioso il giorno in cui Melania Fusco (ICONA, artista in residenza alla BLM) ci ha domandato di portare in braccio alcuni nostri compagni, fingendo una morte: le anziane veneziane dell’Arsenale ci hanno guardato sbigottite mentre distendevamo Nina Harrasser (artista, studentessa IUAV) su una panca in granito dinanzi a Riva degli Schiavoni; organizzando sul momento una veglia funebre.
Forzare i limiti è stato il compito affidatoci da questo workshop, e sono davvero contento di aver scoperto in studenti di varie discipline un difficile ma tenero affiatamento. Simone Marraghini, Nina Harrasser, Matteo Roici, Federica Sveva, Giorgia Antonioli, Eugenio Gervasi, Giulia Menegale, Antonia Treccagnoli e Laura Griffa sono persone che hanno partecipato fino in fondo a quest’esperienza. Senza risparmiarsi, sempre oltre orario, senza aspettative, esponendo e mettendo in discussione le loro fragilità. È stato certamente uno spazio difficile e complesso quello che abbiamo conquistato insieme. Ci siamo calati nell’abisso, con voglia di vivere, di elaborare delle strategie per ognuno diverse, ma possibili solo grazie al respiro collettivo che l’ateneo ci ha concesso.
Inoltre, il legame coi corpi è sempre stato in relazione agli spazi di Venezia. I corpi a Venezia subiscono infatti una forte compressione che va declinata positivamente: tra acqua e calli la dimensione privato-pubblico è densamente sfumata. Avviene una giustapposizione completa. Infine l’abisso è l’incontro con la notte a Venezia, con la grazia e la paura che la pervade.

 

Esercizio di veglia funebre, foto di Matteo Roici. Workshop Tzanj
Esercizio di veglia funebre, foto di Matteo Roici. Workshop Tzanj
Lectures di LOCALEDUE (Marzocchi & Pajè
Lectures di LOCALEDUE (Marzocchi & Pajè)
Tavolo rizomatico pre-performance Suicide a Venise, foto JMM e gos
Tavolo rizomatico pre-performance Suicide a Venise, foto JMM e gos

 

 

[CS] Un altro elemento che mi ha colpito assistendo a una piccola parte del workshop è come abbiate sviluppato una sorta di feticismo nei confronti della morte. È come se a furia di parlarne e pensarci abbiate imparato a vederla e a individuarla più facilmente. Mi ha colpito l’ossessione con cui vi siete spinti a osservare in modo molto voyeuristico una barca-carro funebre mentre questa passava per il Canal Grande, documentando l’accadimento con foto e video, quasi fosse un gioco. Pensi che questa attitudine sia un modo per sublimare la paura ancestrale che tutti proviamo per la morte? In che modo avete strutturato delle pratiche performative affinché si potesse desacralizzarla per imparare a comprenderla?

[gos] Il workshop ha un titolo che deriva dal nome dell’artista greco Emmanouil TZANfournaris e dalla giustapposizione tra i concetti di Suicidio e Dormizione desgli spazi di Venezia, partendo da una ricognizione iconologica. La paura della morte non è parte ancestrale dell’uomo: essa alberga in seno alla nascita della civiltà occidentale ossessionata dall’orrore della decomposizione del corpo; oggi, che viviamo circondati da profili Facebook di defunti e ove ricche ereditiere ricoprono i loro cagnetti di averi e kitkat di lusso, perché non osservare lo spettacolo di un rito funebre in Canal Grande?
Somatizzare la morte, come guardando il male di qualcuno iniziando a provarlo, è sembrato qualcosa di naturale. Abbiamo cercato di sprofondare con tatto e mai brutalmente in questo climax, per ridere anche della morte. Sprofondare nell’abisso è sprofondare nel riso.

Funerale in Canal Grande, 29/09/2016, pre-performance Suicide a Venise, foto Josep-Maria Martin
Funerale in Canal Grande, 29/09/2016, pre-performance Suicide a Venise, foto Josep-Maria Martin
Luchino Visconti, durante il girato de La morte a Venezia, 1974 copyright Visconti e WB Vista su Rio San Giacomo dell’Orio e Salita Carminati
Luchino Visconti, durante il girato de La morte a Venezia, 1974 copyright Visconti e WB
Vista su Rio San Giacomo dell’Orio e Salita Carminati
23/09/2016, Location del set di Morte a Venezia e veduta del ponte Salita Carminati 2267
23/09/2016, Location del set di Morte a Venezia e veduta del ponte Salita Carminati 2267
24/09/16 San Francesco della Vigna, esercizio di dormizione, foto di Josep-Maria Martin
24/09/16 San Francesco della Vigna, esercizio di dormizione, foto di Josep-Maria Martin

 

[CS] Vorrei concludere con un’ultima domanda, che si allontana forse dal tema principale del workshop, ma che forse se ne avvicina per altre vie. Ho notato come tutte le pratiche performative siano state documentate attraverso numerosi e diversi mezzi: dalle fotografie, ai video, alle registrazioni. Questa sorta di ossessione per il documento e per la produzione di immagini è molto in linea con quello che accade nella quotidianità, in cui tutto è trattenuto sotto forma di immagini salvate nella memoria del nostro cellulare. Non è paradossale simulare la pratica di qualcosa di assoluto e ineluttabile come la morte e allo stesso tempo cercare di conservare questa esperienza fittizia sotto forma di immagini? E ancora, che ruolo ha la documentazione in questo contesto e soprattutto cosa ne farete di tutto questo materiale?
[gos] Quando morì mia nonna, a Palermo, ormai quattro anni fa, fui profondamente colpito. Cosa che mi fece specie fu la reazione di una mia intima parente: scattava un’infinità di fotografie mentre la bara veniva chiusa, piangendo. Lacrime e smarthphone insomma…
La nostra civiltà è senza dubbio una civiltà basata sulla governance biopolitica e su un sistema digitale di necrocapitalismo. Così vale anche per immagini: non è tanto cosa ne farai (noi le stiamo raccogliendo tutte per creare un archivio completo sul lavoro e ormai si parla di più di 500 gb di file); piuttosto il farlo per postarlo e per inviarlo, subito, in diretta Facebook ad esempio. È l’impero dell’ipercirolazione, dell’immagine povera, per dirla con Hyto Steyerl: la memoria dello smarthphone costituisce l’atto “notarile” della nostra esistenza in vita.
Ma bando a pietismi, il prisma di una camera da presa, risplende, anche, nell’opera di Thomas Mann tradotta in cinema da Luchino Visconti:
Una macchina fotografica, apparentemente senza padrone, stava sul suo cavalletto in riva al mare, e il panno nero stesovi sopra svolazzava schioccando al vento, che era rinfrescato. Tadzio coi tre o quattro compagni che gli erano rimasti si baloccava a destra davanti alla capanna dei suoi, e Aschenbach, sdraiato in poltrona con una coperta sulle ginocchia, a mezza strada circa fra il mare e la fila di cabine, ancora una volta lo seguiva con gli occhi. (T. Mann, La morte a Venezia)

 

Frame de La morte a Venezia, di Luchino Visconti, Lido, Set al Bagno degli Alberoni, 1974. Distribuito da Warner Bros
Frame de La morte a Venezia, di Luchino Visconti, Lido, Set al Bagno degli Alberoni, 1974. Distribuito da Warner Bros