INGRID PUCCI . STUDIO VISIT . INTERVISTA DI DARIO GIOVANNI ALÌ

CERCHIO magazine ha deciso di intervistare Ingrid Pucci, giovane artista italiana attiva a Milano.

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I. Pucci, The talkers, 2015

Dario Giovanni Alì: Ciao Ingrid. Dato che è difficile reperire sul web delle informazioni su di te, vorrei chiederti di cominciare questa intervista con una tua breve presentazione.

Ingrid Pucci: Ciao Dario. Sono un’artista italiana, classe ’86, vivo e lavoro a Milano da una decina di anni. Sono cresciuta a Santa Cruz, la città più popolosa e moderna della Bolivia est, confinante col Brasile, dove mio padre era un rappresentante dell’Italia. All’età di 17 anni ho traslocato a Bologna, dove ho conseguito la maturità. In seguito, ho studiato due semestri all’Accademia di Belle Arti di Genova, tre semestri all’Accademia di Brera di Milano e un semestre all’Akademie der bildenden künste di Vienna.

I. Pucci, Tyger wolf, animation, 2013
I. Pucci, Tyger wolf, 2013

D. G. A.: Prima che delle tue opere, vorrei parlare del tuo metodo di lavoro. Da un materiale d’archivio (lungometraggi, brevi filmati, vecchie fotografie) realizzi una serie di disegni a mano libera o stampe in bianco e nero che poi colori; in seguito, questi disegni o stampe diventano il materiale con cui crei le tue animazioni; in alcuni casi, infine, l’animazione stessa fa da matrice per un’ulteriore opera, contraddistinta magari da un ritorno al disegno e alla stampa. È come se il tuo lavoro, dunque, si moltiplicasse crescendo sempre intorno a se stesso, con un esercizio di continua destrutturazione e riformulazione, un puzzle che continui a disfare e ricostruire. Possiamo dire che alla base della tua metodologia si trovi una sorta di idea di “riciclo”?

I. P.: Sì, è una trasformazione continua e la sua potenzialità di moltiplicazione non mi lascia mai senza lavoro. Un frame che ho in mano, cioè la stampa/disegno, posso modificarlo varie volte e tenerne tracce digitali in ogni fase della sua evoluzione. Durante l’editing posso scegliere diversi ritagli della stessa immagine e riutilizzarli. Se la fonte originaria è a colori, non li rispetto mai. A volte non rispetto nemmeno i colori che ho scelto io su carta e li modifico digitalmente. Una singola immagine può imboccare varie strade conservando ogni volta un suo valore diverso e unico.

I. Pucci, The swan song, animation, 2012
I. Pucci, The swan song, animation, 2012
I. Pucci, The swan song, animation, 2012
I. Pucci, The swan song, animation, 2012
I. Pucci, The swan song, animation, 2012
I. Pucci, The swan song, animation, 2012

D. G. A.: Venendo al tuo lavoro, desidero analizzare con te The swan song (2012), remake di un breve filmato anni ’30 in cui è mostrato l’unico esemplare ripreso in video del Laysan ‘apapane, una specie di uccelli oggi estinta. Per l’intera durata, il filmato mostra il volatile in controluce, se ne scorge solo la sagoma nera. Siamo messi di fronte a un gap di informazioni proprio da quella che dovrebbe essere la nostra unica e preziosa testimonianza. Questo aspetto, nel tuo remake, sembra evidenziato: il tuo protagonista è presente, ma si sottrae al riconoscimento, il volatile estinto diventa quasi metafora di una perdita irreversibile, sembra addirittura mostrare la volontà di essere dimenticato.

I. P.: Che la presenza di questo essere vivente voglia essere dimenticata o meno, è una scelta personale dello spettatore. La povertà descrittiva del filmato originale diventa una caratteristica espressiva sottolineata nella mia versione. Penso che ciò che resta sia lo spaesamento della sua contraddizione: la rivelazione di una presenza che non si riesce a conoscere.

I. Pucci, A Journey, animation, 2012
I. Pucci, A Journey, animation, 2015
I. Pucci, A Journey, animation, 2012
I. Pucci, A Journey, animation, 2015

D. G. A.: In generale, nel tuo lavoro rilevo una maggiore tendenza ad astrarre, che non a descrivere o narrare. Prendiamo A Journey (2015), un’animazione realizzata a partire da alcuni filmati di Youtube, in cui delle persone svolgono delle attività fisiche di vario tipo. Protagonisti della tua animazione sono quelli che definirei “caratteri puri in uno spazio neutro”: la realtà fisica e corporea del tuo video è ridotta ai minimi termini, al grado zero dell’esistenza. Dalla rappresentazione di un’esperienza fisica (gli atleti nei video) hai ricavato quella che mi sembra piuttosto la rappresentazione di un’idea (in generale il movimento, il rapporto tra corpo e spazio). Quale senso hai dato alle tue fonti e a cosa è dovuto un titolo così evocativo?

I. P.: Lo spunto per questo lavoro è iniziato quando mi sono imbattuta in filmati amatoriali di work out alla sbarra realizzati da ragazzi che creano figure con il corpo. Dopo ho allargato la ricerca ad altre attività fisiche di vario tipo. Lo sforzo e le scomposizioni del corpo, mescolati al concetto di prestazioni sportive e al superamento di se stessi, stanno alla base dell’opera. La trasposizione delle figure in non luoghi accomuna le loro esperienze, rendendoli partecipi di un unico percorso chiamato appunto “A Journey”.

I. Pucci, They Capture, animation, 2014
I. Pucci, They Capture, animation, 2014
I. Pucci, They Capture, animation, 2014, installation view, courtesy GAFF
I. Pucci, They Capture, animation, 2014, installation view, courtesy GAFF

D. G. A.: Abitato da adolescenti, figure ambigue e animali estinti, il tuo universo poetico è retto da un’atmosfera fiabesca, solcata a tratti da una gelida sensazione di scacco e malinconia. Nei tuoi video si ha un’alternanza tra tonalità cupe e colori vividi e luminosi. La trama filmica è spezzata, non regolata da una logica successione di eventi, ma dall’inframmezzarsi intermittente di brevi suggestioni. Da dove nasce il tuo immaginario e da quali riferimenti prende spunto?

I. P.: Ho un interesse per i romanzi di formazione, come L’isola di Arturo (Elsa Morante), I ragazzi della Via Pál (Ferenc Molnár) e La linea d’ombra (Joseph Conrad), dove i personaggi prendono coscienza e si evolvono, ecco quindi la mia scelta di figure giovanili, simboli di trasformazione continua. La scelta di animali estinti è un chiaro esempio della mia volontà di evitare barriere di alcun genere. Conoscere e soprattutto sentirmi in sintonia con i maestri dell’animazione, come Andrey Khrzhanovskiy con il suo Butterfly, lo studio Soyuzmultifilm, Vince Collins con Life is flashing before your eyes e Malice in wonderland, Ryan Larkin con Walking, Giulio Gianini ed Emanuele Luzzati con Il flauto magico, mi ha dato una spinta per utilizzare l’animazione come mezzo e non avere nessuna inibizione per quanto riguarda l’uso del colore, che a volte dà quell’atmosfera fiabesca di cui parli.

I. Pucci, 50 imaginary portraits of a young man in one minute of his life, animation, 2013
I. Pucci, 50 imaginary portraits of a young man in one minute of his life, animation, 2013

http://https://www.youtube.com/watch?v=GLTwWwwLxrg

D. G. A.: Desidero farti un’ultima domanda rispetto all’opera che hai esposto quest’anno da Gaff, a Milano. Si tratta di 50 imaginary portraits of a young man in one minute of his life. Il titolo descrive perfettamente la natura dell’opera. Da questo intervento di dilatazione temporale sembra affiorare ancora una volta la sensazione di scacco a cui prima accennavo, come se la totalità di quel singolo minuto non riuscisse, alla fine, a emergere, come se in questo frazionamento del tempo si perdesse qualcosa di tutto l’insieme. Qual è l’aspetto che intendevi mettere a fuoco in quest’opera?

I. P.: Il protagonista attraversa ogni istante, è impegnato nel suo cambiamento, quindi parlerei di mutazione e la sua comprensione, senza parlare di una fine. Il tempo si dilata per vivere il passaggio di quei confini sfuggevoli. I ravvicinamenti, dove si vedono porzioni di lui e non l’insieme, i tagli bruschi e la ripetizione rappresentano la difficoltà di essere consapevoli di quei precisi istanti. È lo sforzo tramite il silenzio e l’introspezione di viverlo.

D. G. A.: Quando ho rivisto questa tua opera in studio, mi è venuto in mente il finale di Palomar di Italo Calvino. Forse è una suggestione imprecisa, ma vorrei chiudere la nostra intervista con quelle parole, che a mio avviso sono in grado di dare ulteriori spunti di riflessione a chi guarda il tuo video:

«“Se il tempo deve finire, lo si può descrivere, istante per istante, – pensa Palomar – e ogni istante, a descriverlo, si dilata tanto che non se ne vede più la fine”. Palomar decide che si metterà a descrivere ogni istante della sua vita, e finché non li avrà descritti tutti non penserà più d’essere morto. In quel momento muore».