UTOPIE E LIBRI D’ARTISTA . ARTICOLO DI SIMONA SQUADRITO

Quest’anno il panorama culturale di Milano sarà ancora più vivace, grazie anche a un’interessante e utile iniziativa culturale promossa dalla storica libreria Utopia e dall’associazione Casa Gialla, in collaborazione con Traslochi emotivi, che il 2 aprile inaugureranno insieme il progetto “Utopie d’Artista”. Le porte di Utopia si aprono così agli artisti e ai loro manufatti editoriali: libri d’artista, fanzine e altri prodotti di editoria indipendente trovano finalmente a Milano un loro punto stabile di raccolta e diffusione.

Ma se è facile per tutti noi capire cos’è un catalogo o una fanzina, a volte riesce invece difficile capire cosa sia precisamente un libro d’artista. Spesso è tanta la confusione che si genera su cosa sia, e molti sono i tentativi per far rientrare in questa categoria progetti editoriali che, a ben guardare, non vi rientrano. Per questo, ritengo che raccontare la storia di questo oggetto che sfugge facilmente alle definizioni possa essere d’aiuto per comprenderne meglio la natura. Esporre l’origine di un simile manufatto, così come lo conosciamo nell’accezione moderna e contemporanea del termine, serve a tracciare le sue caratteristiche essenziali e a meglio delimitare i confini, spesso non del tutto percepiti, tra ciò che è un libro d’artista e ciò che invece non lo è. La confusione è generata dal fatto che l’espressione rinvia a tutti quei libri su cui è intervenuto un artista, come nel libro-oggetto, nel libro-illustrato, e così via. Per questo motivo è importante far riferimento a quegli esempi storici che, per la loro esemplarità, gettarono le basi per le future edizioni. Ancora oggi non esistono definizioni che ci soddisfino in pieno, e come già sostenuto da Moeglin-Delcroix è più facile dire ciò che il libro d’artista non è piuttosto che definire ciò che è.

Nel 2004, a seguito della mostra Guardare, Raccontare, Pensare, Conservare. Quattro percorsi del libro d’artista dagli anni ’60 ad oggi, fu prodotto un catalogo scritto a quattro mani – A. Moeglin-Delcroix, L. Dematteis, G. Maffei e A. Rimmaudo – in cui, attraverso numerosi esempi e un’accurata ricognizione storica, si tenta di far luce su che cosa sia un libro d’artista. Il catalogo si apre con una citazione di P. Bianchini, un paradigma che funge da modello di riferimento per provare a testare la validità di questi manufatti: “Un libro d’artista è un’opera creata unicamente sotto la responsabilità dell’artista. È prodotto con i metodi migliori per ottenere la qualità in quantità illimitate. Dovrebbe essere disponibile ad un prezzo moderato ovunque siano venduti dei libri”.

Twentysix Gasoline Stations (Edward Ruscha), copertina.
Twentysix Gasoline Stations (Edward Ruscha), copertina

La storia del libro d’artista, nell’accezione moderna e contemporanea del termine, inizia nel 1962, anno in cui vengono alla luce quattro libri che diventeranno pietre miliari e modelli di riferimento per le edizioni a seguire: Twentysix Gasoline Stations (Edward Ruscha), Topographie anecdotèe du hasard (Daniel Spoerri), Dagblegt Bull (Dieter Roth), Moi, Ben Je signe , o Ben Dieu Art total Sa revue (Ben Vautier).

È il libro di Ruscha, più di ogni altro, a facilitare la creazione di un vero e proprio paradigma. Il libro contiene 26 riproduzioni fotografiche in bianco e nero di stazioni di servizio americane. Il formato utilizzato (18x24cm) era insolito per il tempo, così come l’assenza di un testo. A sfogliarlo, il libro è molto semplice e a uno sguardo superficiale può apparire un oggetto di poca importanza. Eppure si tratta del capostipite dei futuri libri d’artista, e forse fu proprio questa apparente semplicità a farne un oggetto rivoluzionario. Ruscha stesso, a proposito dei suoi libri, dichiara: “I libri che ho fatto sono stati in qualche modo dei lucchetti saltati”. Le 26 riproduzioni fotografiche sono presentate come oggetti nudi e auto-esplicanti, le immagini sono prive di didascalia e gli unici elementi in grado di identificare le stazioni di servizio sono le scritte che riportano il marchio di benzina e l’ubicazione di ciascuna stazione.

Twentysix Gasoline Stations (Edward Ruscha)
Twentysix Gasoline Stations (Edward Ruscha)

Le immagini sono state pensate per essere presentate al pubblico in questo modo, nude o, per usare le parole di Ruscha, “in modo neutro e obiettivo”. Ruscha non era un fotografo, prima di tutto era un pittore, e questo libro di riproduzioni fotografiche non va pertanto classificato come un libro di fotografia. È lui stesso a dichiarare che le sue fotografie non hanno nulla di artistico, ma che l’obiettivo principale è quello di realizzare un oggetto seriale, con una patina professionale e una finitura meccanica. L’idea non era quella di fare un oggetto prezioso, con un testo a edizione limitata, ma “un prodotto in serie di prim’ordine”, da non confondere con il fatto a mano.

Topographie anecdotèe du hasard  (Daniel Spoerri)
Topographie anecdotèe du hasard  (Daniel Spoerri)

A fare da pendant a quello di Ruscha troviamo il libro di Spoerri. A differenza del primo, il contenuto di questo libro prevede solo il testo, fatta eccezione per uno schema numerato che indica la posizione degli oggetti presenti su un tavolo. Nelle 50 pagine di Topographie anecdotèe du hasard, l’artista elenca tutto quello che si trova sul tavolo della sua stanza d’hotel in rue Mouffetard, raccontando in modo evocativo i ricordi suscitati da ciascun oggetto. Topografia e aneddoti sono differenziati tramite l’uso di caratteri grafici differenti. Se attraverso l’uso della topografia Spoerri esegue un’operazione affine ai suoi lavori del medesimo periodo (i quadri trappola), con la parte aneddotica, invece, non fa altro che ribadire il connubio tra arte e vita. Il libro non può essere definito un catalogo, né un diario, quanto semmai un manifesto del nuovo realismo.

Dagblegt Bull (Dieter Roth)
Dagblegt Bull (Dieter Roth)
Dagblegt Bull (Dieter Roth), 2.
Dagblegt Bull (Dieter Roth)

Per il terzo esempio preso in esame, quello costituito dal lavoro di Roth, occorre fare una breve premessa. I libri a forma di piccoli cubi erano stati assemblati a partire da una serie di gazzette islandesi tagliate a pezzi, incollate e infine pressate. Ciascun libro presenta delle differenze nel taglio e nello spessore. All’epoca l’artista li spedì ad André Balthazar, inserendoli all’interno di una scatola di scarpe. Sulla spedizione figurava la seguente descrizione: “lotto di abiti usati”. Il titolo – Dagblegt Bull – è ispirato al nome della rivista “Daily Bul” che, tradotto grossolanamente in islandese, potrebbe pronunciarsi “Daglegt bult” (“chiacchiere quotidiane”). L’idea di Roth era quella di trasformare uno strumento di alienazione – il quotidiano – in un mezzo di presa di coscienza, per creare uno spazio di libertà. Ma ben presto la sua idea “militante” non faticò ad essere assorbita dal sistema dell’arte, e quegli oggetti home made di scarso valore si trasformarono presto in libri-oggetti confinati “nelle vetrine dorate dei collezionisti” (Roth).

Moi, Ben Je signe , o Ben Dieu Art total Sa revue (Ben Vautier)
Moi, Ben Je signe , o Ben Dieu Art total Sa revue (Ben Vautier)

In ultimo, il libro di Vautier – Moi, Ben Je signe, o Ben Dieu Art total Sa revue. All’interno di un colophon ricavato da fogli di carta di mais – quella solitamente usata per avvolgere le fritture –, l’artista inserisce una serie di fogli di carta da macelleria, stampati in ciclostile, con i suoi progetti artistici, le sue dichiarazioni, degli abbozzi di manifesto e aneddoti personali. Ai fogli vengono incollati diversi oggetti, tra cui cartoline, lame di rasoio, etichette di vino, ecc. Il colophon manca di rilegatura, firma e numerazione.

I quattro esempi storici esaminati sono evidentemente molto diversi tra loro, ma ciò che li accomuna è il medesimo spirito, le stesse intenzioni. È facile constatare come in essi convergano le tendenze di quel periodo: Pop Art, il movimento Fluxus e il Nuovo Realismo. La loro comparsa coincide con la perdita di specificità delle tecniche artistiche che fino a quel momento definivano le belle arti. Il tentativo comune era quello di realizzare un prodotto artistico che potesse essere a disposizione di tutti, qualcosa che entrasse in tutte le case e potesse essere diffuso in modo autonomo: Ruscha creò dei libri d’artista appositamente concepiti per la riproduzione industriale che rispondevano alla sua esigenza di sentirsi libero rispetto all’istituzione dell’arte; fare dell’arte disponibile a tutti, e non solo riservata ai più abbienti, rientrava specificamente nelle intenzioni di Roth; così come uscire dalla logica della speculazione fu ciò che conquistò Spoerri nel momento in cui riuscì a convincere il suo gallerista a regalare i suoi libri sostituendoli ai soliti inviti alle mostre, mentre il connubio tra arte e vita trova una sua felice riconciliazione con il libro di Vautier.

Tramite queste operazioni, gli artisti riuscirono a riappropriarsi del controllo totale dei propri lavori, decidere di donarli o semplicemente venderli a un prezzo accessibile a tutti, creando una modalità alternativa ed efficace di diffusione dell’arte e rompendo le logiche economiche delle gallerie.

Com’è facile notare, che siano riprodotti in scala industriale o siano confezionati in casa e manualmente, l’idea che sta alla base dei libri d’artista è quella di creare un prodotto di qualità che possa essere venduto nelle librerie di qualsiasi città, un prodotto che sfugga alla logica del mercato. Un libro d’artista deve inoltre essere seguito direttamente dall’autore in tutte le sue fasi, dalla progettazione alla realizzazione e alcune volte anche nella fase legata alla distribuzione. Negli esempi qui riportati notiamo come tutti gli artisti citati abbiano rifiutato l’idea del libro come oggetto prezioso e raro: è l’idea della democratizzazione dell’arte che sta alla base di questi progetti, ed è questo l’augurio che facciamo al progetto “Utopie d’Artista”, ovvero quello di riuscire a creare una realtà concreta di scambio democratico e non elitario dell’arte.