MICHELANGELO CONSANI . LE COSE POTREBBERO CAMBIARE . INTERVISTA DI STEFANO SERUSI

Intervista a Michelangelo Consani in occasione della mostra “Le cose potrebbero cambiare”, a cura di Matteo Lucchetti, visitabile a Milano sino al 31 Luglio 2015 alla Prometeogallery di Ida Pisani.

Michelangelo Consani, Le cose potrebbero cambiare, 2015. Veduta della mostra alla PrometeoGallery di Ida Pisani. Foto Bruno Bani.
Michelangelo Consani, Le cose potrebbero cambiare, 2015. Veduta della mostra alla PrometeoGallery di Ida Pisani. Foto Bruno Bani.

Sono rimasto piacevolmente colpito dal comunicato di Matteo Lucchetti, il cui carattere più evocativo che descrittivo mi fa subito capire come sia più importante il clima generale della mostra rispetto alla sosta davanti alle singole opere. Mi ha permesso di non trarre conclusioni prima di avere un quadro d’insieme, in questo senso ho trovato molto efficace il ricorso al cinema in modo che esigenze di narrazione e di sintesi restino su piani separati. Parlando di espedienti cinematografici, ti volevo chiedere come è nata l’idea di presentare alcune opere sulle mensole, e se questa soluzione ha a che vedere con il modo in cui vedi il lavoro svolto sinora e il ruolo del “museo”.

È vero, in questo progetto è importante il clima generale che si crea attraverso il percorso di rimandi storici tra le singole opere in mostra.
L’idea di presentare alcune opere su mensole nasce da varie esigenze.
Le mensole sono un chiaro riferimento al film Il seme dell’uomo di Marco Ferreri, del 1969. Il film racconta la storia di un uomo, Cino, e di una donna, Dora, che vivono isolati in un casolare davanti ad una spiaggia, dopo che il mondo è stato decimato da un’epidemia. Cino affronta la calamità con uno sguardo sereno sul futuro; sembra entusiasta rispetto alle possibilità della scienza, Dora invece è completamente sfiduciata.
Per l’uomo la natura presenta un carattere buono, quasi materno: studia con passione i libri e i suoi segreti, in particolar modo approfondisce lo studio sui componenti della bomba atomica (che è un elemento cardine del progetto milanese).
L’uomo vuole un figlio per ripopolare il pianeta, la donna no.
Cino all’interno del casolare crea un museo del genere umano, un luogo di archiviazione di opere d’arte, oggetti di design e utensili vari posti su delle mensole; le stesse mensole che ho presentato recentemente, all’interno del progetto dal titolo Le cose potrebbero cambiare negli spazi di Prometeo Gallery a Milano.
La cosa che mi ha colpito particolarmente, è come, in questo museo del genere umano, Ferreri usa le mensole.
Gli elementi che vi vengono appoggiati sono dei più diversi: dalla forma di parmigiano, al quadro di Rembrandt, alla televisione Radio Marelli. Tutto è sullo stesso piano smaterializzato. L’oggetto, qualunque esso sia, viene in un certo senso privato del valore economico di riferimento per connotarsi in una dimensione di reperto di valore “assoluto” in quanto testimone di un era storica ormai esaurita.
Ferreri si scaglia, con la consueta lucidità, contro la società dei consumi, che già nel 1969 rende l’umanità una specie ridicola, destinata a finire male.

Quindi, è ovvio che ci sia, da parte mia una riflessione sulla situazione museale oggi. Il senso di una collezione? Il ruolo? L’opera d’arte e il valore economico? L’archiviazione? Interrogativi che diventano temi portanti di alcuni miei progetti.

Michelangelo Consani, Il seme dell’uomo, 2010. Ceramica, 22 x 14 x 3 cm. Foto Bruno Bani.

Mi sono chiesto la storia della petriana pistola rossa a pois bianchi. Non ho potuto non notare che rispetto alle immagini si presenta con il grilletto spezzato, come un reperto, un oggetto del passato. Mi chiedevo se la rottura è il frutto di un provvidenziale incidente o il passaggio ad uno stato inoffensivo, come il rovesciamento del busto di Sébastien Le Prestre de Vauban.

L’immagine utilizzata per l’invito è la foto di una pistola in ceramica. La pistola è rossa a pois bianchi e ha un tappo di spumante infilato nella canna da sparo.
All’interno del percorso espositivo, come giustamente hai sottolineato, sulla mensola però viene esposta un’altra pistola in ceramica con il grilletto e il cane spezzati. Un’immagine che vuol lasciare aperta ogni ipotesi: la pistola si è rotta accidentalmente, oppure ha cambiato stato ed è diventata un reperto archeologico, oppure è una nuova immagine-opera nata come proiezione futura.

Il busto in gesso di Sébastien Le Prestre de Vauban lo definirei non tanto rovesciato quanto “appoggiato”. Il busto è posizionato a terra “imprigionato” nella sua stessa base. La scultura ha una base in ferro che riproduce la pianta del pré carré; invenzione di Vauban, costituita da un sistema di fortezze regolarmente spaziate fra loro, concepite in modo da sbarrare permanentemente le frontiere. E’ come se il busto di Vauben implodesse nelle sue “convinzioni”.

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Michelangelo Consani, Sébastien Le Prestre de Vauban… poi marchese di Vauban, 2015. Resina, base in ferro, dimensioni variabili. Foto Bruno Bani.
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Michelangelo Consani, Sébastien Le Prestre de Vauban… poi marchese di Vauban, 2015. Particolare. Foto Bruno Bani.

Nel comunicato si legge che alcune opere arrivano da altri progetti, sono quindi ricontestualizzate nella mostra, che appare quindi non come un discorso stringato ma una finestra aperta sulla tua ricerca. Quali tra le tue opere ti “seguono” ancora, attraverso quali tematiche?

Mi sono sempre interessato a figure estremamente lungimiranti e sapienti, come ad esempio lo scrittore, storico, pedagogista e filosofo austriaco Ivan Illich.
La sua teoria sulla decrescita economica, a favore di una società conviviale fatta di valori umani e non economici, ha influenzato la mia ricerca.
Il mio progetto artistico parla spesso di “sobrietà” intesa come resistenza allo spreco; ecco perché utilizzo spesso elementi che provengono da altri miei progetti. Colloco questi elementi in modo nuovo nello spazio, dando vita a un nuovo setting a servizio della nuova messa in scena “che il progetto mostra richiede”.
Molte sono le opere che mi seguono. In questo caso per la Prometeo Gallery ho riutilizzato le mensole in legno, che derivano da un altro progetto realizzato sempre con la cura di Matteo Lucchetti in una mostra personale al Camec Piano Zero di La Spezia; e la pistola a pois bianchi.

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Michelangelo Consani, The One-Straw Revolution, 2015. Terracotta, 40 x 50 x 70 cm. Foto Bruno Bani.

Davanti ai busti di Masanobu Fukuoka e Sébastien Le Prestre de Vauban ho notato un riferimento scultoreo alla sottrazione; da parte orientale, una consunzione quasi spirituale che erode metà della figura, o forse è una metà non necessaria perché l’occhio la genera automaticamente; da parte occidentale un foro disegna il neo sul busto dell’uomo seicentesco, diventando quindi un vezzo, qualcosa in eccesso.

Nella mia ricerca ci sono sempre delle strane forze di equilibro, che tengono in piedi le sculture. Un equilibrio in divenire; come un’immagine che sta nel mezzo a qualcosa che è successo e si prepara a qualcosa che dovrà accadere. Una sorta di invisibile equilibrio “instabile” tiene in piedi le mie sculture.
La scultura di Fukuoca è fragile, visivamente e tecnicamente: i quaranta chili della testa scaricano in uno strato estremamente fine di pochi millimetri, vicino alla spalla, i rischi di rottura ad ogni spostamento sono estremamente elevati. Il busto in gesso di Vauban è l’esatta copia di una scultura celebrativa che si trova a Versailles. Qui però, a differenza della scultura originale, sulla guancia ha un foro di proiettile. Il foro del proiettile è la rappresentazione di un evento reale, Vauben infatti fu colpito sul volto da un proiettile, nei ritratti generalmente rappresentato con un neo.
Io ho riprodotto il foro di entrata, per descrivere “la verità storica”.
In un certo senso, scrivo attraverso il foro l’accadimento storico e rendo il busto in gesso, non più scultura celebrativa, ma documento storico.

Il Giappone è presente anche attraverso i monocromi realizzati con alghe contaminate. L’Impero, nonostante tutto, ricompone sempre se stesso, attraverso tempi e visioni rallentati e il ricorso alla tradizione. Come ti sei posto davanti a questo approccio? Ce ne restituisci l’anacronismo, il carattere paradossale con distacco oppure senti di esprimere un giudizio?

Non lo so, è molto difficile rispondere a questa domanda.
Per prima cosa, mi sono posto il problema formale puro e semplice. Affrontare un monocromo è anacronistico, e questa è già una considerazione. Ma se il monocromo non ha ambizioni estetiche e si presenta come “reperto”, allora non è più anacronistico pensare a un monocromo.
Tutto ciò però non risponde alla tua domanda, forse sarebbe utile capire
che rapporto ho con il Giappone. La prima volta che sono andato in Giappone era il 2010. Sono partito ad aprile, per un sopralluogo per la Triennale di Aichi, che Akira Tatehata, Masahiko Haito, Hinako Kasagi, Pier Luigi Tazzi e Jochen Volz curavano a Nagoya. Una manifestazione molto importante con artisti del calibro di Franz West, Adel Abdessemed, Cai Guo-Qiang, Yayoi Kusama solo per citarne alcuni; tutti invitati con nuovi progetti pensati e prodotti appositamente per la Triennale.
Un’esperienza straordinaria. Arrivare e vivere per alcuni mesi a Nagoya è stato come essere teletrasportato da una “navicella spaziale”. Era il Giappone del pre-Fukushima, dove non c’era nessun pensiero “nero” sul futuro e la fiducia nello Stato era indiscutibile. Dopo la Triennale ho iniziato ha collaborare con la Galleria Side2 di Tokyo. La frequentazione del Giappone mi ha permesso di individuare aspetti del mio carattere che si sposano bene con la cultura orientale: il silenzio e la pacatezza nei rapporti umani, ad esempio, come forma di rispetto tra nuclei vitali. La mia conoscenza dell’Oriente avviene in un momento storico, il nostro, che manifesta tutti i limiti di un modello occidentale decadente.
L’incidente atomico di Fukushima ha cambiato l’animo dei giapponesi. Lo Stato non è tutt’oggi in grado di risolvere definitivamente il problema della contaminazione nucleare. In Giappone la fiducia nelle istituzioni è praticamente crollata.
L’Occidente, da parte sua, è ormai perso dai problemi sociali, incastrato tra lo spread ed il debito greco, con un onda di migranti provenienti dall’Africa.
L’occidente vede il futuro in modo non roseo a parer mio, e nello stesso modo il Giappone.
In definitiva i monocromi sono degli elementi che prendono una distanza da questa crisi globale, da Oriente ad Occidente. Non son altro che la prova d’archivio della fine di un’epoca.

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Michelangelo Consani, Silenzio assordante #2, 2015. Alghe Nori contaminate, Ø 91 cm. Foto Bruno Bani.