Intervista a Nicola Torcoli

INTERVISTA  A NICOLA TORCOLI
articolo di Andrea Lacarpia

 

Conosco Nicola Torcoli da parecchio tempo, e con lui ho in comune l’aver frequentato l’Accademia di Belle Arti di Brera in anni che ricordo con affetto, ultimo periodo nel quale l’istituzione, pur nel degrado dell’edificio che la ospita, manteneva un certa validità istruttiva grazie all’accento che ancora si dava al dialogo maestro-allievo, oggi sostituito dalla frammentazione in un mare di lezioni teoriche basate sull’acquisizione di meccanicistiche nozioni. Erano anni nei quali, oltre ai noti corsi di Luciano Fabro e di Alberto Garutti, si potevano seguire corsi di altri professori, nei quali tornava in primo piano la fisicità concreta dell’opera e, con essa, il lavoro che nasce all’interno dello studio dell’artista. Nonostante l’ultima ondata di interesse dei giovani artisti per il modus operandi tipico degli anni settanta poveristi e concettuali, in una sorta di nostalgia sessantottina trasformata in chiave estetizzante, negli ultimi tempi si riafferma sempre più anche l’attitudine alla manipolazione dei materiali nella loro fisicità. L’odierno massiccio ritorno alla scultura, al collage e alla pittura in ambienti che sembravano esclusivamente votati al video e all’installazione ne è l’esempio più evidente.

Incontro Nicola Torcoli in occasione della sua mostra personale da Amy D arte spazio a Milano, curata da Annamaria D’Ambrosio e con un testo di Jacqueline Ceresoli. Una mostra nella quale, mediante abili smembramenti e ricomposizioni, l’artista afferma quanto la pittura possieda ancor oggi vaste possibilità semantiche.

 

 

Come ti sei rapportato all’Accademia di Belle Arti? Quali ricordi hai di quel periodo della tua formazione?

Per me l’Accademia è stata tutto quello che poteva dare ad un ragazzo che veniva da un paese e che aveva studiato in un liceo scientifico in un paese, Lumezzane. Mi sono sempre sentito fortunato per i professori ed i maestri che ho conosciuto fin dalle scuole elementari e ho sempre pensato che in ognuno di loro ci fosse qualcosa di estremamente interessante da cui apprendere. In Accademia il primo anno ho frequentato il corso di pittura di Paolo Scirpa che insegnava copia dal vero, nudo e copie dei maestri del passato. Per me, che non avevo fatto studi artistici, era buono, e conoscendo il suo lavoro ho appreso da esso l’importanza del consiglio e del distacco. Di lui ricordo bene che mi disse “se vuoi fare un buon disegno non copiare un soggetto brutto ma un’ opera finita e ben fatta”. Poi è stato un susseguirsi di professori che erano morenti o in pensione perciò il mio obbiettivo è sempre stato lo spazio: lo spazio per poter dipingere. Nei primi anni frequentavo la sede di Brera 2, dove nel corso di anatomia ho incontrato Leonida de Filippi,  Dany Vescovi e Davide Nido che mi hanno ospitato nella loro aula dove ho potuto creare una sorta di piccolo studio, ma il rapporto con i miei coetanei studenti è stato limitato. Lì frequentavo anche il corso di fotografia di Ken Damy. Negli anni seguenti sono finito nello studio di Francesco Hayez con Ortelli, che non ho mai visto poichè malato, e quindi ho conosciuto il meraviglioso Pizzi, il grande Shimitzu e il maestro Remo Salvadori. L’Accademia in quegli anni permetteva di seguire più corsi senza obbligo di tempo e frequenza perciò navigavo tra le aule e le lezioni di quasi tutti i professori in maniera frammentaria ed incostante. Il mio tempo era confusamente scandito anche perchè dovevo cercare lavoro, fino a quando mi è stata data la possibilità di lavorare presso lo studio del pittore Marco Cingolani. Con lui ho imparato ad esprimere ed esercitare quello che mi interessava nella materia della pittura: la tela nella sue grandi estensioni, la materia ed il colore, l’ordine e la pulizia che anelano nella pittura, l’instancabilità e la ricerca di nuovi stimoli. Il cinema con il corso di Ballo e le intuizioni fantascientifiche di Notte sono stati stimoli fervidi per la mia ricerca e fuga da qualcosa di più grande di me stesso. Potrei citare tutti gli altri professori con cui ho avuto contatto, come è stato per un viaggio con il professor Buglioni, ma quello che conta è che l’Accademia mi ha dato tanto e consiglio a chiunque di riflettere sulla possibilità del contatto con un ambiente così denso e fervido di input e punti di vista. Per me L’Accademia insegna, come Darwin, la selezione della specie, ad ognuno però è dato crearsi la sua situazione in un ambiente con diverse possibilità, e questa è una ricchezza da non sottovalutare.

 

Come ti rapporti all’attuale contesto artistico?

Sono molto critico rispetto all’attuale contesto artistico, poichè credo di esserne un po’ estraneo ed anche in merito disinformato, ma ogni volta che cerco di addentrarmi nel tema mi sembra di incontrare molta confusione e chiusura. Se nello specifico ci limitiamo a parlare del contesto milanese, in realtà ci troviamo di fronte ad un piccolo mondo molto frammentato e complesso, in cui tutti si conoscono e pochi comunicano. Ma questo non è altro che il frutto di una ricerca continua del nuovo o dell’usato di qualità, conseguenza di una città che oltre al primato dell’arte detiene anche il primato della moda e del design con tutti i meccanismi che ne conseguono. Per me questa è una grande ricchezza dalla quale prendere appunti e spunti ma bisogna mantenere un notevole distacco. Come tutti i contesti sono fatti di gossip, notizie vere e false, importanti e non, ma in ogni caso ho deciso e resisto in tutti i modi possibili per vivere a Milano cercando di frequentare diversi contesti: dall’ arte della pittura al cinema, dalla moda al teatro, dalla musica agli eventi mondani; le persone circolano, il mondo è piccolo e si espande sempre come un’onda e più onde si intersecano in più punti.

 

Quanto per te è importante il medium della pittura e, in generale, la manipolazione dei materiali? Credi che oggi la pittura goda del giusto riconoscimento nel sistema dell’arte?

Questa per me è una domanda ben fatta, poichè non si chiede sulla pittura piuttosto che del medium della pittura, della manipolazione dei materiali. In questo forse mi ricollego all’Accademia. La pittura è avanguardisticamente insegnata in corsi accademici nei quali non si disegna neanche. In questo senso ho imparato che la pittura è un modo di fare, vedere e intendere le azioni, i sentimenti, la storia. Per me la pittura è la cosa più difficile che esista ed è quella cosa che mi riesce a volte con lo sforzo mentale e pratico più semplice che si possa immaginare. Nella pittura sono riassunti tutti gli sforzi della storia umana per quanto riguarda l’alchimia: la chimica, la tecnica: la fisica, la psiche: la psicologia, il modo di vivere: la filosofia, cosa e da dove veniamo: l’antropologia e l’astrologia, come apprezziamo le cose nel nostro tempo: l’estetica, ed altro ancora… La pittura è un medium che racchiude tanti medium in diversi periodi storici e grazie a questo si trasforma e risulta per forza sempre attuale. La pittura autoseleziona colui che vuole osservare, colui che vuole entrare nel suo meccanismo, il resto è solo immagine, ma del resto questo vale per la natura stessa, in tutto ciò che vediamo, assoluto solo quando rivela un movimento interiore inevitabile per chiunque.
In questo senso non mi preoccupo di cosa goda la pittura nel sistema odierno dell’arte, poichè oggi “sistema” è legato ad un meccanismo economico, mentre io credo ad un meccanismo pittorico.

 

Nelle tue opere recenti, esposte da Amy D a Milano, unisci pittura e collage. Mi parli di queste opere e della loro particolare collocazione all’interno dello spazio?

Vorrei specificare che nel mio lavoro non è presente un collage e per far capire questo mi affiderei ad una pagina del mio diario, dove è ben descritto il concetto ed il modo operandi del mio lavoro.

14 dicembre 2010
«Questo fare a pezzi le tele è proprio una liberazione. Per anni ho tentato di astrarre lo sguardo dall’opera, cercando di farmi guidare un po’ dal caso e un po’ dall’errore. Tutto per ricreare quella situazione di evoluzione creativa e di errore evolutivo, ma le regole della vista conducono sempre a soluzioni scontate.

Ora finalmente quando dipingo posso azzardare le sovrapposizioni più impossibili, le linee non devono più essere follemente diritte e certi colori si accostano forzatamente. Non devo più considerare l’opera finita(cosa che non ho mai comunque fatto) non mi soffermo più sulla precisione snaturata del segno.

Questo perchè sò che quello che sto facendo, che quella superficie, quei colori e quelle forme diventeranno altro.

La tela, la superficie piana verrà presto distrutta, frammentata, riciclata e ricomposta. Per ogni opera futura ricomposta ci sono più tele singole. Più momenti, umori, sensazioni, emozioni, intuizioni fissati su diverse superfici si intrecciano e si compongono in un’altro tutto. L’atto di reintelaiare tuttavia ha ancora bisogno di molto lavoro per diventare completamente altro da se, ma è veramente difficile prevedere il risultato finale e questo mi rassicura perchè posso sentirmi sorpreso. Posso fare tanti quadri brutti, comporre opere abominevoli che distrutte e ricomposte non sentono più il bisogno di essere belle, ma semplicemente ricomponendosi quasi casualmente rivivono e sono di nuovo in sè in quanto altro da sè: sono in loro perchè sono con altri. Mi sembra quasi di dare respiro allo scambio, distruggendo l’individualismo egoista del quadro. Già il mondo si muove verso un’individualismo smodato e crudele; mi fa star meglio pensare che almeno i miei quadri abbiano deciso di spogliarsi della loro unità vanitosa, individualista egoista. Non credo che si sentano defraudati o deturpati, non sono più completi o più felici, sono solo più disposti ad essere altro.»

Per quanto riguarda la collocazione nello spazio della galleria c’è stato un ottimo lavoro di squadra tra me, Annamaria e Jacqueline, tutto in pochi minuti, dopo una comunicazione intensa, sincera, vera e immediatamente risolutiva, naturale, come non poteva essere altro che così. Proprio come l’uomo sta nel suo habitat all’interno della selezione della specie in quel momento, in quel posto, con quella disposizione d’animo.

Per quanto riguarda la disposizione delle opere all’interno dello spazio, è stato frutto di una serie di pareri congiunti che sono partiti fin dalla selezione dei lavori, poichè per questa mostra ho deciso di esporre infine solo la metà dei lavori che avevo preparato e che sono serviti come esercizio per arrivare ad un sunto. Come dice bene Annamaria d’ Ambrosio con me il lavoro si è basato sul contenere, scremare e scegliere il giusto tra una massa ben più densa di opere. La collocazione è venuta quindi di conseguenza, pensando allo spazio diviso in settori, o stanze, anche dove la galleria presentava un open vasto, respiro alle opere ed alle pareti, ed era simpatico pensare ad una mostra di pittura dove pochissime opere fossero appese a muro. Del resto questa modalità l’avevo già ben sperimentata nella mia personale di Belgrado alla Zvono Gallery dove le opere costituivano le pareti stesse, permettendo allo spettatore di muoversi all’interno dello spazio.

 

 

 

Oltre ai dipinti, nella mostra sono esposti un video e un tavolo sul quale sono disposte tessere mobili, le quali presentano ognuna il disegno di una planimetria. Mi parli di queste due opere?

In una una sorta di corridoio, sono esposti i cartoncini di 7×7 cm in bianco e nero raffiguranti ognuno una sorta di sezione di città vista dall’alto, come in Google Maps-heart, disposti su di un lungo e stretto tavolo, costruito con telai per quadri e cartoncino grigio. In questo caso la composizione finale è variabile e a discrezione dell’attimo creativo installativo. Quest’opera rappresenta l’artificiosità dell’uomo del suo costruire e in qualche modo è uno schema mentale che si proietta in un mondo umano sempre più invaso dalla tecnologia informatica digitale. Io credo in questa evoluzione ma credo anche che se un giorno dovessero staccare la corrente non esisterebbe nulla di tutto ciò e per questo preferisco limitarmi a pensare all’uomo come carne e sangue, ma la contemporaneità mi mette ogni giorno a dura prova con la tecnologia e le sue conseguenze. I cartoncini non sono altro che degli schemi, frazioni di circuiti, mappe di città, creati però dalla semplice casualità della mia mente nell’atto creativo. Non sono copiati, ispirati a fotografie o oggetti, sono solo delle linee, punti e campiture che si auto generano spesso per correzioni di imperfezioni del disegno stesso. Non ho mai creduto che fosse possibile creare un cyborg da zero, ma credo che l’uomo, con protesi di ogni genere possa diventare in futuro un cyborg. Quello che rimane ancora un mistero è la mente ed il suo funzionamento, ma di sicuro in comune l’uomo e il cyborg hanno l’energia vitale, elettrico-magnetica, circuiti o sinapsi collegati tra loro e disposti in un certo modo, variabili e modificabili. Il titolo di questa opera è «Senza Codice», come una rappresentazione dell’evoluzione delle città del nostro tempo e come rappresentazione di una possibile protesi dell’uomo contemporaneo e degli sviluppi dell’informatica applicata.

Il video dal titolo «Effetto lego» è realizzato in una sola seduta della durata di circa 1,30 h nella quale non faccio altro che riversare su di un tavolo il barile di costruzioni lego che hanno accompagnato la mia infanzia. Successivamente al riversamento nel quale si distinguono tutti i colori più comuni del lego ; rosso, giallo, blu, nero, bianco, grigio , inizio a smistare ogni pezzo rosso separandolo dagli altri ed eliminandolo pian piano dall’inquadratura, così segue il blu, il grigio, il giallo, il bianco, fino a che rimasto il nero con esso delimito un cerchio con al centro una scatola nera costruita con i pezzi neri stessi,  la quale viene riempita con i restanti pezzi neri fino a che non rimane più nulla. Questa operazione la facevo spesso da piccolo quando giocavo e a volte suddividevo anche per forme differenti ogni colore, poi rimischiavo tutto e iniziavo a costruire l’oggetto che volevo. Questo mi permetteva di memorizzare a grandi linee le possibilità di pezzi a mia disposizione per poter creare poi liberamente dal caos quello che desideravo. In questo caso potrei dire che questo lavoro ha un aspetto terapeutico, e forse più legato alla reminescenza di sensazioni passate, quando creare era totalmente slegato da barriere di qualsiasi tipo e non era altro che un atto di una mente ancora pura. Ho in passato pensato a Picasso e al lego, poichè per me il grande pittore non ha fatto altro che inseguire tutta la vita quell’atteggiamento creativo che da bambino gli era stato proibito a causa del suo stesso genio. In questo senso intendo l’effetto lego per me, come per qualcun’altro potrebbe essere salire sull’altalena o andare in bicicletta, ricordare una sensazione o un profumo, durante comunque un atto creativo.

 

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L’architettura e l’urbanistica compaiono spesso nelle tue opere, mi parli di questo aspetto della tua ricerca?

I miei primi quadri apprezzati, esposti e venduti raffiguravano interni di officine, con uomini intenti nel lavoro da catena di montaggio. Essi rappresentavano l’alienazione in bianco nero, ispirati a fotografie scattate all’interno delle fabbriche della mia città natale, Lumezzane. Poi mi sono trasferito a Milano e mi sono reso conto del cambiamento in atto, le fabbriche sono state dismesse piano piano e sono state sostituite da enormi spazi vuoti, cantieri edili, che già prefiguravano la nascita delle future torri, simboli di un potere dell’economia affidata al settore terziario dei servizi e delle banche. Non ho fatto altro che osservare gli spazi in trasformazione attorno a me e da li si sono appunto susseguiti quadri raffiguranti il processo di distruzione e creazione. Spesso mi sono immaginato quei luoghi sulla terra vittime di bombardamenti, terremoti e pronti per essere di nuovo ricostruiti e ho percepito un assurdo meccanismo che contiene nel suo profondo un grande vuoto. Con l’avvento di Google Maps poi sono arrivati i grandi viaggi alla scoperta della terra e di tutte le sue strane conformazioni, da quelle naturali fino a quelle urbanistiche create dall’uomo. Nelle città simultanee ho riflettuto sui diversi punti di vista possibili che si possono riassumere in una sola opera e li mi sono accorto dell’immensa visionarietà del cubismo. Qui ho capito quanto fosse un pretesto la ricerca di un soggetto e quanto invece fosse importante riflettere sulla pittura di per se, non solo come raffigurazione narrativa, ma come narrazione di un medium, di un modo di fare.

 

Nel tuo percorso hai sperimentato più materiali e modalità di rappresentazione, mi parli di questo aspetto del tuo modo di lavorare e di come è stato recepito dagli altri?

Ho sempre lavorato con materiali diversi, ma sempre legati alla pittura, anche se sono convinto di poter spaziare ben oltre con materiali disparati che oggi l’industria ci può offrire, ma contemporaneamente cerco di tener sempre ben presente le lezioni del passato e soprattutto so che il disegno è la base di tutto e in questo campo ho ancora molto da imparare. Ottenere dei buoni risultati consiste nell’esercizio costante e l’ispirazione arriva solo se ben supportata da una pratica quasi giornaliera. Molte volte si preferisce un medium ad un altro per sopperire ai propri limiti e da questo nascono nuove intuizioni, ma comunque sia si anela sempre ad un risultato buono ed immediato, per dare una sorta di pace e soddisfazione al proprio spirito.

Gli altri sono disparati e possono essere altri artisti, galleristi, parenti ed amici. Sicuramente chi mi conosce da molto tempo sa leggere nel mio lavoro tutto il filo conduttore che spesso visto da estranei può sembrare frammentato ed incoerente, ma alla fine anche su questo punto ho riflettuto parecchio e mi sono reso conto proprio della frammentarietà e incostanza che sono i temi fondamentali del nostro tempo, in tutti i campi. Del resto sono più di quindici anni che continuo instancabilmente a produrre opere e ogni volta cerco di venire sorpreso dal risultato, perchè i quadri vivono una loro vita propria e sono soggetti ai cambiamenti del tempo e degli sguardi, delle mode e della storia.

 


Mi parli del tuo studio – laboratorio?

In questi tredici anni a Milano ho cambiato almeno cinque studi diversi e ho sempre cercato di avere più spazio possibile a disposizione. Ho lavorato su un poggiolo di cinque metri quadri, in cantine oscure e in diversi seminterrati. Non mi sono mai preoccupato del fatto che fossero più o meno confortevoli, ma piuttosto della loro estensione. Quasi sempre si trattava di case-studio, ma avendo sempre anche lavorato in altri settori per guadagnarmi da vivere ho sempre considerato un ottima soluzione poter avere la possibilità di dipingere in qualsiasi momento una volta in “casa”. Certo non è facile e bisogna esercitare la mente all’astrazione dal luogo, ma questo risulta pratico, economico e nel mio caso l’unica possibilità di sopravvivere in una città come Milano. Da piccolo ho sempre avuto molto spazio a mia disposizione per giocare ed inventare cose nuove e questo è l’unico vero vizio che porto con me. Certo è che di trementina ne ho respirata parecchia e prima o poi sentirò l’esigenza di staccare e concentrarmi sui contesti, ma questo non mi preoccupa, credo che verrà naturale.

 

Le recenti tecnologie influiscono in qualche modo nella creazione delle tue opere?

Assolutamente sì. Sarebbe un discorso molto lungo, ma basti pensare che la mia generazione è quella fortunata ad aver conosciuto la nascita del computer, del telefonino, delle macchine fotografiche digitali e di tutte le conseguenti applicazioni, ma ha anche vissuto un periodo in cui gli spazi aperti e la manualità erano le fonti primarie per il gioco e l’incontro. Noi conosciamo la differenza e siamo sufficientemente preparati per capire le conseguenze della mancanza di certe esperienze, senza essere solamente malinconici o disfattisti. Ho giocato per anni al computer fino a sognare di morire e ritrovarmi disteso al suolo pregando che qualcuno schiacciasse il tasto invio, ho percepito la possibilità di essere collegato con il mondo dimenticando il compleanno del mio vicino di casa, so bene cosa vuol dire cercare la domanda giusta per avere la risposta più corretta. Questo non è altro che collegato a quello di cui si parlava prima, dove il terziario ha completamente espropriato il lavoro fatto di pratica e di materia, ma il mondo è grande e questo processo deve solo essere visto da un punto di vista più ampio ed esteso, fuori dai nostri confini.

Nelle opere che ho recentemente realizzato ed esposto ci sono tantissimi rimandi a simbologie di giochi, cartoni, patterns informatici, e nello stesso tempo ci sono rimandi a spazi naturali e orizzonti estranei alle creazioni umane.

Per me questo non è altro che un periodo storico della storia dell’uomo, ma io vedo l’uomo come una specie e non come un individuo, ma quello che succede è che ci sono diverse età dell’uomo nello stesso mondo, nello stesso tempo e soprattutto non si può sapere in che età morirà la specie umana. Cioè nel mondo ci sono diverse civiltà, forse in Italia potremmo considerarci degli ottantenni, e in America dei sedicenni, ma nessuno sa con precisione a quanti anni potremo arrivare, perciò noi potremmo essere dei sedicenni e gli americani sarebbero dei bambini. La tecnologia e la scienza non sono altro che la sfida a questa risposta e nello stesso tempo contribuiscono a rendere questa risposta incerta. Per questo motivo ho cercato in simbologie ancestrali delle fonti di ispirazione, poichè mi sono reso conto che solo nella ricerca della matrice si può trovare lo spirito giusto per recuperare il senso di specie.

 

 

Dalla tua collaborazione con l’artista Emilia Castioni sono nate diverse opere. Mi parli di esse?

Le opere realizzate con Emilia Castioni per me sono il frutto di una esperienza di vita, dal momento che con lei convivo da quasi dieci anni. In questo periodo siamo sempre riusciti a mantenere vivi e autonomi il nostro interesse, i nostri percorsi e i nostri sentimenti. I lavori che abbiamo realizzato insieme sono delle città fatte con oggetti, gli oggetti del nostro vissuto condiviso. Condivisi sono anche la mia visione pittorica e la sua fotografica. Per me le città sono nate dall’osservazione del lavoro di Morandi e dell’estrema coincidenza tra i suoi lavori sulle botttiglie e i sui paesaggi, per Emilia non sò, dovresti chiedere a lei. Quello che so è che questo lavoro è molto più complesso e ricco di significati di quanto sia stato percepito fino ad ora e credo che nei momenti appropriati avrà degli sviluppi e delle nuove possibilità di espressione.

E’ giusto che ognuno di noi abbia il suo spazio, i suoi segreti e che ci sia sempre qualcosa di nuovo da scoprire, ma quello che più mi lega è qualcosa di simile alla pittura, è la materia, la fisicità, la pelle è come un’opera incompleta che mi parla e che mi può sorprendere in qualsiasi momento.

 

 

Quali sono gli incontri o i progetti che reputi essere stati tra i più importanti nel tuo percorso?

Ogni persona che ho conosciuto meriterebbe una frase per descrivere cosa mi ha dato, dal professore dell’accademia all’ amico più caro, dal rom alla fermata al cliente più strano in negozio, ma soprattutto sono i quadri che ho visto nelle mia vita ad avermi fatto venire un vero brivido dalla punta dei piedi fino al cervelletto. Per questo forse ho cercato nella pittura un’ emozione vera, poichè credo nella comunicazione degli atomi e dell’energia, non della parola. Sapessi quanto è difficile per me rispondere a queste domande per iscritto.

Comunque sicuramente realizzare dei progetti fuori dall’ambito milanese, che siano stati Belgrado, Dresda, Montecarlo o Cremeno mi hanno fatto riflettere sul concetto del ritorno. E’ come quando uno scala una montagna e arrivato sulla vetta non vede l’ora di ritornare a casa e solo quando ritorna gode nella sua interezza tutto il percorso, la fatica e la soddisfazione.

 

 

Come ti rapporti all’arte antica e moderna?

Il rapporto con l’arte antica e moderna è un costante ricercare immagini, ma senza un percorso ben definito. Sono solito passare delle ore in biblioteche e librerie dove sfoglio con una velocità sostenuta tutte le pagine dei cataloghi che mi vengono per le mani fino a che non ritrovo le medesime riprodotte su almeno tre e quattro volumi diversi e lì pongo la mia attenzione. Ma a volte succede l’esatto contrario, cioè se un immagine mi risulta completamente estranea, la vado a ricercare fino a che non la ritrovo in volumi che trattano argomenti diversi dall’arte. Comunque sia per me la specie umana possiede una memoria indipendente dall’individuo e perciò è molto facile ritrovare nella contemporaneità l’antico ed il moderno, certo credo che sarebbe necessario dare un ampio spazio nei corsi accademici alla visione di artisti e professori stessi, poichè non è la ricerca del nuovo che sta alla base della pittura, quanto invece la conoscenza per un’evoluzione profonda di stimoli e simbologie che si possano evolvere in contesti più disparati e complessi. Sia ben chiaro, non voglio sembrare superficiale, non è che ogni cosa fatta in un certo modo con un certo intento possa essere considerata arte, questo è un problema da risolvere nella contemporaneità, ed io stesso su questo argomento mi metto in discussione. Come in tutte le materie ci vuole una profonda conoscenza, uno studio serio e meticoloso, un raffronto tra fonti, scritti e dati, ma si deve avere un approccio libero da preconcetti, da date e coordinate per poter percepire il vero senso assoluto dell’espressione dello spirito umano. Bisogna sapersi prendere non troppo sul serio, perchè tutto è come un gioco, spontaneo, puro, vero ed è per questo che io penso che i bambini giochino seriamente.

 


La ricostruzione dell’identità dell’uomo nella sua integrità insieme materiale e spirituale è, a mio parere, la principale sfida della nostra epoca post-postmoderna, e solo passando da questa ricostruzione si può accedere ad un benessere psichico reale. Come ti rapporti con l’aspetto trascendente, nella tua vita e nelle tue opere?

La mia formazione religiosa è cristiano cattolica. Sono cresciuto in un ambiente con una nonna fondamentalista cattolica che oggi ha 103 anni, un padre di estrazione socialista- marxista e d una madre cattolica. Ho frequentato l’oratorio e sono battezzato, confessato e cresimato. La ricerca spirituale è tutto al di fuori di queste coordinate. La conclusione a cui sono giunto, dopo aver sofferto seriamente per diversi motivi nella mia breve vita è che il dolore non è la via giusta nel quale crogiolarsi o cercare giustificazioni. La concezione del peccato, dell’errore e della confessione sono il male peggiore della nostra tipologia religiosa, poichè è molto più difficile cercare la felicità e vivere secondo buoni propositi. Vivere in una concezione in cui sbagliare è lecito ed è confessabile e perdonato crea una sorta di inappetenza. Per questo motivo sono passato da una pittura bianco nera triste e alienata alla ricerca del colore e dell’espressione della vitalità. Le culture più povere e disperate del mondo conservano una vitalità ed una forza nella ricerca del sorriso e del colore propria della vita della terra. A volte credo di essere zoroastrista, ma non vuol dire nulla, prego il mio Dio come mi hanno insegnato, ma non riconosco le istituzioni che lo hanno deturpato. Se devo essere fino in fondo sincero i miei ultimi lavori con le tele tagliate sono nati da un’opera che è un crocefisso di tre metri per due ricoperto da svariati strati di flatting. Tutto ciò che faccio vuole una risposta dal trascendente e in alcuni casi mi è capitato di percepire qualcosa. Ricordo molto bene quando ho installato i miei primi bastoni a Cremeno, dove pensavo seriamente di comunicare con lo spazio aperto e con il cielo. Beh! Sarà il caso, ma dopo aver finito di installare è veramente caduto il cielo in terra, con una pioggia e una grandine tali da farmi veramente spaventare. Ho sentito un sacco di grandi fitte dall’alluce al cervelletto ed ero contento e spaventato, ma soddisfatto.

 

Film e letture preferite?

Normalmente guardo o meglio ascolto almeno tre film al giorno di tutti i tipi e generi, quelli che veramente guardo ed apprezzo sono molti: amo molto Herzog, mi stimola Cronenberg, adoro Bergman, non mi stanca mai Sergio Leone, vorrei essere Tarkovsky.

Per quanto riguarda la lettura sono molto debole e di libri avvincenti ne leggo pochi, di solito trattati noiosi, lunghi che non finisco mai e continuo a rileggere. Forse Tom Robbins e Calvino sono i due autori che mi hanno regalato romanzi avvincenti e con i quali ho distratto la mia mente distaccandomi completamente dai miei pensieri contorti. Ho sempre cercato di finire Le mille e una notte e un paio di trilogie di Asimov. Generalmente mi piace l’avventura ed il verde sia nel cinema che nella letteratura, mi rilassano, ma accetto consigli!!!!!

Raccontami brevemente come si svolge la tua giornata, in particolare le tue abitudini.

Il mio tempo ultimamente è scandito da sette giorni di lavoro in negozio e sette in studio, ma di regolarità ed abitudini non ne posso proprio parlare. Non esistono proprio. Posso dire che quando lavoro in negozio dormo poco la notte e quando lavoro in studio non mangio di giorno.

 

Sei soddisfatto della tua vita e della società attuale?

Non mi pongo mai la domanda se sono soddisfatto, perchè non lo si è mai se no perchè si vive, la vita è la vita e basta. Per quanto riguarda la società vorrei che fosse solo più consapevole di essere una società e non un insieme di individui e questo basterebbe a migliorarla.

 

Credi che l’arte possa influire nel modo di pensare e negli stili di vita delle persone che ne fruiscono?

Penso di non dover aggiungere molto a quello che ho già scritto precedentemente, e credo che sia abbastanza chiara l’importanza che ha per me la pittura. Oggi la vita dell’artista non è molto diversa da quella di molti professionisti che si trovano senza lavoro e che cercano nel loro intimo nuovi stimoli per poter creare qualcosa di più sincero che gli aiuti a trovare nuove possibilità di realizzazione. Certo l’arte è una cosa ben più complessa, Marco Cingolani una volta mi disse che è l’arte che ti sceglie e che sono gli altri a prenderti sul serio, perciò ti trovi in una situazione in cui devi mettere in gioco tutto te stesso, ma questo capita a chiunque in qualsiasi ambito. Io credo che fare arte sia un modo di vedere le cose e che chiunque possieda delle belle opere di cui può godere sia in contatto con una visione ed un energia particolare che gli possa dare degli stimoli sempre nuovi e imprevedibili a seconda se c’è il sole o la pioggia, se sia un giorno triste o felice, quei colori, quell’immagine scaturiranno un energia pura, sincera. In tutto questo è racchiusa la magia, il non detto di tanto che si vuol spiegare, ma che deve rimanere poco chiaro e non svelato. Agli altri come agli artisti stessi le opere nascondono qualcosa di più profondono, sono il frutto di una serie di infiniti frammenti di stimoli, emozioni, colori, visioni che formano un tutto indefinito nella sua completezza disarmante.

 

Progetti per il futuro?

Ogni opera esposta nella mia ultima mostra personale in realtà racchiude un punto di inizio per sei diversi progetti che già si stanno sviluppando.
Spero di poter rivedere e collaborare con due miei cari amici pittori Mirko e Giorgio e dare vita al proseguimento del progetto Ways of future making!


Il tuo più grande desiderio?

Un desiderio grande.


 

 

La mostra personale di Nicola Torcoli “Hasta la pittura sempre” , a cura di Anna Maria D’Ambrosio
è visitabile fino al 13 ottobre 2013
presso Amy-D arte spazio, via Lovanio 6 Milano (MM2 Moscova)
mail: [email protected] – www.amyd.it