Intervista a Domenico Antonio Mancini

PREMIO SHANGHAI/ 1 –Intervista a Domenico Antonio Mancini
articolo di Viola Invernizzi

 

La crescita spropositata del “gigante cinese” non poteva non interessare anche il mondo dell’arte, e sono sempre più frequenti le iniziative che negli ultimi anni hanno cercato di far incontrare questa cultura con quella italiana, attraverso la promozione di scambi bilaterali. Un’ottima iniziativa in questo senso si ha avuta con il “PREMIO SHANGHAI- Residenze artistiche per giovani artisti italiani e cinesi emergenti”, bandito nel 2012 dal Ministero per i beni e le attività culturali, dal Ministero per gli Affari Esteri – Istituto Italiano di Cultura, Sezione di Shanghai (MAE – IIC) e dall’Istituto Garuzzo per le Arti Visive (IGAV). Il Premio si articolava in due fasi: la prima prevedeva una residenza di due mesi a Shanghai per tre artisti italiani (conclusasi nel dicembre 2012), mentre la seconda consisteva all’opposto nella permanenza di tre artisti cinesi a Torino (che si concluderà il 5 giugno 2013). In entrambi i casi gli artisti sono stati selezionati sulla base di progetti da loro presentati per essere sviluppati nel luogo di residenza (http://www.igav-art.org/).

Quali sono gli esiti di uno scambio fra due mondi così diversi ma ormai sempre più vicini? Proviamo a rifletterci assieme ai vincitori della prima fase, Domenico Antonio Mancini, Susanna Pozzoli eNadir Valente che hanno concluso la loro permanenza a Shanghai esponendo i loro lavori nella mostra Shanghai la città invisibile presso la Yibo Gallery di Shaghai (19 dicembre 2012 – 7 gennaio 2013).

 

DOMENICO ANTONIO MANCINI è nato nel 1980 a Napoli, dove vive e lavora. Per il Premio Shanghai ha presentato il progetto The Novel of Shanghai, il quale si proponeva di scrivere un romanzo della città raccogliendo il maggior numero di “parole” inviate dagli abitanti di Shanghai a un sito creato per l’occasione (www.thenovelofshanghai.com). Alcune di queste parole sono state poi usate per un’installazione presentata alla Yibo Gallery.

Domenico Antonio Mancini, The Novel of Shanghai, 2012, courtesy l’artista

 

Perché hai deciso di partecipare al Premio Shanghai?

Oggi il sistema dell’arte passa anche e soprattutto attraverso esperienze di questo genere. Premi e residenze offrono la possibilità di vedere molte cose e persone nuove, e da qui si sviluppa buona parte dell’organizzazione degli eventi. Considero poi la residenza un modo più “informale” di partecipare. Shanghai è una città che ha la fama di essere in continua evoluzione: anche se, non essendoci mai stato, non  la conoscevo molto, mi sembrava possedesse un’energia particolare, uno spirito di autoproduzione che mi attiravano. Mi era poi piaciuto che nel bando fosse richiesto di misurarsi direttamente con la città nell’elaborazione del progetto. Proprio perché è una realtà che cambia da un giorno all’altro, per fare lavoro site specific su Shanghai devi inevitabilmente passare del tempo lì.

 

Ci racconti come hai elaborato il tuo progetto?

Il primo elemento che ha attirato il mio interesse era la popolazione: gli abitanti dichiarati sono ventitré milioni, ma è possibile che il numero reale sia di trenta milioni! Un luogo cambia a seconda di quante persone lo attraversano, la loro quantità lo modifica. Fin dall’inizio ho elaborato un progetto che potesse essere modificabile in base alla risposta della città, era impensabile partire con un’idea precisa che rimanesse la stessa. Ho ricevuto circa trecento risposte, quindi rispetto al numero totale il mio rimane un discorso molto parziale. Per pubblicizzare la cosa ho avuto alcuni problemi, ad esempio in università ho potuto usare solo il passaparola perché inserire un link nel sito ufficiale, come avrei voluto, avrebbe comportato un continuo controllo della censura. Comunque il sito era programmato in modo che potessi vedere solo le parole che ricevevo, ma non gli indirizzi mail o i dati di chi le aveva inviate.

Il mio obbiettivo era un romanzo che si auto costruisse senza bisogno della mia mediazione, attraverso la successione delle parole nell’ordine in cui erano arrivate. Chiedere a un cinese di indicarti una parola è  chiedere un’esperienza, non solo una descrizione… è qualcosa che in un paese occidentale non sarebbe possibile, gli stessi aggettivi erano qualcosa in più rispetto ai nostri. In più io non conoscevo il cinese, per questo volevo farmi aiutare da loro. La stessa costruzione del sito, per la quale sono stato affiancato da programmatori cinesi, è stata interessante, perché lì hanno regole e modalità diverse dalle nostre, a partire dalla necessità del visto della censura.

 

I listelli di legno con alcune delle parole che avevi raccolto esposti alla mostra facevano già parte del progetto originale?

No assolutamente, l’idea era quella di esporre il romanzo solamente sul sito. Poi là ho osservato i materiali che loro usano per la scrittura: il listelli di legno verticali appartengono alla tradizione. Ma non potendo utilizzare la calligrafia, che non conosco, ho usato strumento moderno, il pantografo, per riprodurla.


Domenico Antonio Mancini, The Novel of Shanghai, 2012 (particolare), courtesy l’artista

 

Pensi di essere stato influenzato dall’arte e dalla cultura cinese?

In realtà il mio è un lavoro molto europeo anche se ho utilizzato la lingua cinese. Anche l’idea del minimo è italiana: più che un’attenzione per il vuoto, si avvicina al procedimento scultoreo di Michelangelo, quello di  togliere materia per estrarre la forma. Il mio metodo è quello di accumulare elementi e poi toglierne sempre di più per arrivare al nocciolo, al concetto fondamentale.

 

Quanto influirà quest’esperienza sui tuoi prossimi lavori?  

Lavorare in un contesto così grande mi ha cambiato. Lavorare con la città ha significato avere avuto a che fare con tutte le sue parti, non solo con quella artistica. Ogni volta che la attraversavo stavo lavorando al progetto, non ero solo uno spettatore. Io lavoro sul site specific e tendo continuamente alla ridefinizione dell’idea di specificità, su cui tanto è stato scritto. Quindi è stata un’esperienza che è servita alla crescita del mio lavoro, al di là che influenzi più o meno direttamente quello che farò in futuro.

 

Al di là di questo progetto, ritieni che la tua arte possa essere considerata specificamente italiana? Si possono fare ancora considerazioni del genere in un’epoca globalizzata?

Certamente non sono americano o tedesco, ma non so se ha senso dire che sono italiano. Servirebbe una coscienza profonda di cosa succede in Italia e d’altra parte non sono sicuro che esista l’arte italiana. Sicuramente c’è un’idea di arte che accomuna la parte mediterranea dell’Europa, ed io sono più vicino a questa che a quella del nord. Penso che vi sia un luogo del pensiero che si mischia alla cultura di provenienza, ma senza che si possano dare definizioni troppo rigide.

 

Hai avuto modo di farti un’idea su come vengano percepite l’arte e la cultura italiana in Cina?

Mi sembra che la concezione dell’arte in Cina ancora legata al decorativismo. I collezionisti comprano spesso cose che stiano bene nel loro salotto.  E la stessa proposta dell’immagine italiana alla Cina forse andrebbe ridiscussa: nello Shanghai Italian Center ad esempio la “contemporaneità” italiana è rappresentata  dalla Ferrari e dall’ottimo design che il nostro paese sa esportare, ma il discorso sull’arte spesso è coniugato al passato. È certamente vivo l’interesse su cosa succede da noi. Bisogna riconoscere ai cinesi la ricerca di un know how in tutto quello che fanno, anche per l’arte. Vogliono dei musei che siano competitivi con quelli del mondo occidentale e per questo ci studiano molto.

Domenico Antonio Mancini, The Novel of Shanghai, 2012 (particolare), courtesy l’artista

 

Che idea ti sei fatto invece sull’arte cinese? È cambiata la tua percezione rispetto a prima della partenza?

In pochi mesi la mia percezione è cambiata, anche se rimane comunque limitata. È diventata però meno parziale, visto che prima di partire conoscevo solo pochi artisti cinesi e tutti formati in Occidente.

 

Avevi mai effettuato soggiorni di questo tipo  all’estero?  Quali sono differenze rispetto a questa esperienza?

Qualche anno fa a ho partecipato a una residenza alla Mountain School of Arts di Los Angeles, ma non si trattava di lavorare ad un progetto, piuttosto ad una riflessione sull’arte, attraverso le discussioni allo storico Mountain bar di Chinatown. È stata un’esperienza più teorica, importante perché metteva a contatto persone di diverse provenienze, anche non legate direttamente all’arte, in un luogo che aveva una sua spazialità particolare,  diversa da quelle tradizionali.

 

Rifaresti la residenza a Shanghai?

Ripartirei domani.

Domenico Antonio Mancini, Altre Resistenze, 2011
Domenico Antonio Mancini, Altre Resistenze, 2011
Domenico Antonio Mancini, The Novel of Shanghai, 2012, particolare
Domenico Antonio Mancini, The Novel of Shanghai, 2012, particolare
Domenico Antonio Mancini, The Novel of Shanghai, 2012, particolare 1
Domenico Antonio Mancini, The Novel of Shanghai, 2012, particolare 1
Domenico Antonio Mancini, The Novel of Shanghai, 2012
Domenico Antonio Mancini, The Novel of Shanghai, 2012